Le acque
Da veneziano, fin da bambino ho visto l’acqua come uno stimolo, una frontiera da esplorare, una via di fuga, ma anche un bene da custodire. Negli anni ’60, in canoa con mio padre, in laguna vedevo che oltre ai gabbiani comuni, i cocai (quelli reali, le magoghe, allora erano pochi) c’erano altri uccelli dal volo leggero e abilissimi tuffatori, ma non c’era nessuno che ci badasse più di tanto e che mi sapesse dire molto di più del generico nome dialettale, cocaete. Ma chi fa da sé fa per tre: cercando con puntiglio nell’Enciclopedia Nel Mondo della Natura edita da Motta (Motta l’editore, non la ditta di gelati…), riuscii a capire che si trattava di sterne, ovvero rondini di mare e fraticelli.
Ma il mondo sembrava remare contro… Avevo sette anni quando rimasi colpito dalla tragedia del Vajont, a dieci potei osservare coi miei occhi la distruzione causata dall’alluvione del 1966 sia in montagna, nelle valli del Cordevole e del Piave, sia a Venezia, con l’aqua granda a 194 cm e la distruzione dei Murazzi di Pellestrina e del Lido. Se non bastava, dalle rive dei canali di Ca’ Bianca del Lido, dove abitavo, assistevo impotente alle morie di pesce che si verificavano ogni volta che il garbin (vento che spira da ovest) spingeva verso l’isola d’oro, le acque inquinate di Porto Marghera. Era l’epoca del boom economico, ma c’era chi raccoglieva i cefali boccheggianti per mangiarseli… Allora non avrei mai sperato di trovarmi anni dopo a fotografare i cavalieri d’Italia dalla strada che costeggia le valli da pesca di Lio Piccolo, a nord di Venezia, o impegnarmi, assieme ad altri appassionati, per proteggere la naturalità della spiaggia di Ca’ Roman, affinché questo piccolo, ma prezioso lembo litoraneo venisse protetto per continuare ad ospitare i nidi di quei fratini e fraticelli che osservavo volare da bambino.
La passione era tanta, per fortuna c’erano alcuni politici che ci ascoltavano e capivano che bisognava cambiare prospettiva. Ricordo i primi pali e cartelli con le fotocopie dell’ordinanza a firma del sindaco di Venezia, Antonio Casellati, piantati a mano nel 1989, assieme a Luigino Magoga, ineguagliato primo custode dell’oasi, scomparso prematuramente a febbraio del 2019, giusto in tempo per risparmiarsi lo scempio della pandemia.
Le acque sono una ricchezza per il Veneto. Per gli ambientalisti sono uno scrigno di biodiversità, per i pescatori una risorsa economica, per il turismo intelligente una fonte di attrazione, e per tutti (lo sanno bene le mamme NO PFAS delle zone inquinate da perfluoroalchilici tra Vicenza e Verona) l’elemento prezioso e insostituibile per la nostra esistenza. Ma fiumi, laghi, lagune e mare vanno rispettati e gestiti con cura e saggezza.
Mi auguro che le belle fotografie di questo libro aiutino, nel loro piccolo, ad aprire gli occhi a chi non lo avesse già fatto, sulla bellezza, ma anche la fragilità di questo patrimonio ambientale. Basta poco, molto poco per avvelenare un corso d’acqua o renderlo sterile e maleodorante cementificandone le sponde. Di errori ne sono stati fatti tanti, sarebbe ora di smettere.
Testo di Paolo Ugo